La strana modernità delle elezioni presidenziali in Iran

La Repubblica islamica d’Iran è difficilmente inquadrabile nel panorama dei regimi politici oggi esistenti al mondo. Non è certamente una democrazia liberale, ma nemmeno è un regime autocratico in cui gli appuntamenti elettorali sono decisi in anticipo. Né è l’Iran assimilabile ai regimi plebiscitari, come quello di Vladimir Putin in Russia e, sempre di più, Recep Tayyip Erdogan in Turchia, in cui il regime è in grado di pilotare l’esito elettorale grazie a un mix di controllo e intimidazione dei media, repressione del dissenso, corruzione e cooptazione dei potentati locali.

In Iran le elezioni non sono né libere né eque (free and fair), la definizione generalmente accettata per le liberal-democrazie. Il Consiglio dei Guardiani, un organo non elettivo che risponde alla Guida suprema, ha il potere di vagliare ed escludere i candidati presidenziali più o meno ad arbitrio. Ma una volta che i candidati hanno ricevuto il placet dai Guardiani, la competizione è feroce, il dibattito vivace (comprensivo di dibattiti televisivi sul modello Usa) e, soprattutto, l’esito incerto.

Certo l’impatto delle elezioni non è paragonabile a quello di una democrazia liberale. Il presidente, in carica per quattro anni per un massimo di due mandati (di nuovo il modello Usa), è la seconda, non la prima, carica dello Stato. Alla Guida suprema, eletto a vita da una speciale assemblea di chierici, compete l’ultima parola su tutte le questioni di vitale importanza, e in modo particolare la politica estera e di sicurezza.

Tuttavia il presidente, soprattutto se può contare su una maggioranza parlamentare e un seguito consistente nella burocrazia e magistratura, ha ampi poteri in materia di politiche economiche e contribuisce a indirizzare gli affari interni ed esteri. Per questo l’Iran tende ad avere politiche coerenti quando il presidente e la guida suprema trovano il modo di stabilire una coabitazione amichevole o comunque non ostile.

La corsa alle presidenziali si è ridotta a una scelta binaria tra il presidente in carica, Hassan Rouhani, e lo sfidante preferito dai conservatori, Ebrahim Raisi. Entrambi espressione del regime clericale, Rouhani e Raisi presentano agli iraniani due opzioni politiche tuttavia diverse.

Rouhani fa parte dell’ala moderata e pragmatica del regime. Sostenuto dalle élite colte, la borghesia e i ceti medi urbani, Rouhani propone una politica di moderazione negli affari interni – in particolare ridimensionando l’influenza su economia, costumi e libertà individuali delle forze conservatrici – e di maggiore integrazione dell’Iran nell’economia internazionale. Raisi, sostenuto dall’ala più conservatrice del regime e della popolazione, in particolare nelle campagne, professa un’adesione più stretta all’ortodossia della Repubblica islamica.

La Guida suprema, Ali Khamenei, non si è esposto, preferendo evitare di essere associato a uno dei candidati. Nonostante abbia avuto una relazione costruttiva con Rouhani, Khamenei sembra ideologicamente più affine a Raisi. Al contrario di Rouhani, inoltre, Raisi sembra una figura più facile da maneggiare.

I sondaggi, per quello che valgono, danno in testa Rouhani. Ma non è detto che il presidente in carica ottenga il 50% dei voti necessari a evitare il secondo turno. Se si andasse al ballottaggio, gli iraniani potrebbero interrompere la tradizione che non ha mai visto un presidente servire per un solo mandato (anche se ci sono forti sospetti sulla regolarità della rielezione dell’ultra-conservatore Mahmoud Ahmadinejad nel 2009).

La campagna si è giocata soprattutto su temi di politica interna: l’economia, gli investimenti esteri, l’occupazione – un altro segnale della strana ‘modernità’ della politica iraniana). Rouhani ha certamente risultati da mostrare, in primo luogo l’accordo nucleare con gli Usa e le altre potenze che ha portato alla fine delle sanzioni.

La revoca dell’embargo Ue sulle importazioni di idrocarburi dall’Iran ha portato un enorme flusso di denaro nelle casse del governo iraniano, e il Pil è cresciuto del 6,6% lo scorso anno. Tuttavia, gli investimenti esteri non sono cresciuti in maniera apprezzabile, un po’ per alcune residue restrizioni da parte Usa, un po’ per la difficoltà di fare affari in un paese come l’Iran, dominato da logiche clientelari, relazioni personali e scarsa trasparenza. La gran massa della popolazione non ha visto insomma i risultati della fine delle sanzioni, e l’occupazione resta molto alta (intorno al 10% in generale e al 27% per i giovani, che sono la grande maggioranza).

Le conseguenze dell’esito elettorale si faranno sentire soprattutto sul piano interno. Se riconfermato, Rouhani continuerà nella sua graduale opera di riforma dell’economia, centrata sull’apertura agli investimenti esteri (soprattutto nel settore petrolifero), nonché una politica di bilancio equilibrata e tendente alla stabilizzazione dell’inflazione e al ridimensionamento del ruolo di fondazioni e soprattutto Guardie rivoluzionarie (una specie di stato nello stato) nell’economia nazionale.

Raisi sarà invece più conservatore sul piano dei costumi, più repressivo delle libertà individuali, e più aperto a soluzioni populiste in politica economica, con larghe elargizioni alle fasce più povere (il che porterebbe a inflazione e debito tuttavia).

Minori le conseguenze sulla politica estera. Raisi ha promesso di rispettare l’accordo nucleare siglato da Rouhani, e Rouhani non intende cambiare la politica di sostegno alle “forze della resistenza” anti-americana appoggiate dall’Iran in Medio Oriente: il presidente siriano Bashar al-Assad, Hezbollah in Libano, le forze sciite in Iraq e anche (sebbene in misura minore) gli Houthi in Yemen. L’antagonismo verso Israele, la rivalità con l’Arabia saudita e soprattutto quella con gli Usa resterebbero invariati.

Tuttavia, la vittoria di Raisi sarebbe un segnale incoraggiante per il regime, dal momento che testimonierebbe l’esistenza di un sostegno popolare più ampio di quanto si crede in Occidente. Con Rouhani, la promessa di una graduale, seppure distante, “normalizzazione” dell’Iran nel panorama internazionale resterebbe viva. Con Raisi sarebbe invece ridimensionata – almeno fino alle elezioni successive. Dell’elettorato iraniano tutto si può dire, tranne che non sia capace di sorprendere.

Fonte: huffingtonpost.it

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