I 70 anni di Elton John: quella notte in cui un ragazzo dietro al piano conquistò il mondo

Oggi Reginald Kenneth Dwight, la superstar che tutti conosciamo come Elton John, è famoso in ogni singolo angolo del pianeta. Figlio unico, è nato a Pinner, nei pressi di Londra, il 25 marzo di 70 anni fa da Stanley Dwight, un pilota della Royal Air Force, e da Sheila Eileen Harris, una casalinga. Ma se è vero che pochi altri hanno mantenuto la barra del successo così alta per 50 anni consecutivi, sono ancora di meno coloro che possono indicare con precisione il momento in cui la scintilla ha incendiato il mondo. Reginald è diventato Elton John, il magnifico compositore di piccoli e grandi capolavori della musica del Novecento, esattamente qualche minuto prima delle ore 22 del 25 agosto 1970. A gran voce, in scena al Troubadour, il club che per sei sere di fila, dal 25 al 30 agosto, avrebbe ospitato il suo primo tour in America, un annuncio: “Gente, non l’ho mai fatto prima, per cui siate gentili con me. Sono esattamente come voi. Sono qui perché ho ascoltato il disco di Elton John. Così ora raggiungerò il mio posto, in vostra compagnia, e mi godrò lo spettacolo”. A parlare è Neil Diamond, un rispettato compositore che alle spalle vanta già una nutrita serie di hit. Come altri illustri ospiti presenti nel locale era rimasto colpito dal disco omonimo di quel ragazzo che fuori dai riflettori non sembrava affatto una rockstar. Diamond era stato istruito da David Rosner, il manager locale incaricato della Dick James Music, l’etichetta che in Gran Bretagna aveva lanciato Elton John nel 1969 con un primo lavoro, Empty Sky, rifiutato dal mercato statunitense. Russ Regan, il presidente della UNI Records, una divisione della MCA, non rimase impressionato da quell’esordio discografico. Il giorno in cui gli arrivò l’lp in ufficio lo mise sul piatto, si sedette e ascoltò quattro pezzi. Poi, ad alta voce, disse: “Non credo sia roba per noi. È troppo introversa”. La reazione fu opposta quando sentì Elton John. In verità, suonava ancora più oscuro e riflessivo del suo predecessore, soprattutto per via degli elaborati arrangiamenti orchestrali firmati da Paul Buckmaster che gli donavano un’aura barocca, magniloquente. Se l’avessero suonato in qualche monastero, a parte quel brano – No Shoe Strings on Louise, un omaggio a Mick Jagger il cui testo raccontava di una donna che andava in chiesa a pregare Lucifero – probabilmente nessuno avrebbe avuto nulla da ridire. “Quando sentii quel disco per la prima volta”, ha ricordato Regan, “ho letteralmente perso il controllo. Mi sono rivolto al cielo e ho esclamato: ‘Grazie, Dio!'”. Ho pensato di aver ascoltato il miglior album della mia vita. Ho convocato immediatamente in ufficio tutto lo staff: ‘Lasciate perdere qualsiasi lavoro stiate facendo’, gli dissi. Poi chiesi a ognuno di mettere le cuffie e ascoltare. Quella è stata la prima e unica volta che ho fatto una cosa del genere”.

 

Fonte: Repubblica.it

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