Morto John Avildsen, l’uomo che lanciò Rocky e Stallone fra le stelle

Giuseppe Pino Ruggieri

È morto a 81 anni il regista premio Oscar John G. Avildsen. Aveva diretto il primo film Rocky (ma anche il quinto) e la serie Karate Kid. Avildsen, secondo quanto comunicato dal figlio Anthony, è morto ieri al Cedars-Sinai Medical Center di Los Angeles, a seguito di un cancro al pancreas. Sui social il ricordo di Sylvester Stallone che grazie a quel film (scritto dallo stesso Sly in tre giorni con una penna bic) divenne una star: “Il grande regista John G. Avildsen che ha vinto un Oscar per aver diretto Rocky! R. I. P. Sono sicuro che girerai dei capolavori in paradiso. Grazie Sly”.

Nel 1976 aveva vinto la più ambita statuetta del cinema grazie alla celeberrima pellicola che aveva dato il via alla saga del pugile italoamericano, Rocky Balboa. Interpretato da Sylvester Stallone, il boxeur di Philadelphia è diventato sicuramente uno dei personaggi più noti della storia del cinema americano. Un film girato a basso costo in soli 28 giorni. Per prepararsi l’attore, con un passato di guardiano dello Zoo di Central Park, di maschera del cinema e di porno attore (il film uscì anche in Italia dopo il successo di Rocky con il titolo di Stallone italiano), per cinque mesi si era allenato sei ore al giorno per diventare un vero boxeur. I primi incontri di Stallone con Avildsen erano stati per audizioni a film che il regista stava girando e che Stallone non passò poi arrivò questo copione: “lo lessi e lo trovai affascinante e romantico, un bellissimo personaggio da studiare e persino divertente – aveva raccontato qualche anno fa il regista in un’intervista – Ci divertimmo molto a girare il film, non avevamo idea che stavamo dando vita ad una saga. Pensavamo che saremmo finiti in cinema di seconda visione, in qualche drive-in dell’Arkansas; non avremmo mai immaginato il successo che ha avuto”.

John Avildsen era nato nel 1935 a Oak Park, in Illinois, aveva avuto una lunga gavetta prima di arrivare dietro la macchina da presa; era stato aiuto regista, assitente di produzione, direttore della fotografia e montatore. L’esordio di Avildsen in regia avvenne nel 1970, con un film a basso costo: Joe. Il regista americano diresse poi nel 1973 il film Salvate la tigre, che procurò l’Oscar a Jack Lemmon e dopo il trionfo di Rocky lavorò con attori del calibro di Marlon Brando, George C. Scott, Burt Reynolds e la coppia Dan Aykroyd-John Belushi nel film I vicini di casa, che doveva sfruttare l’onda dei Blues Brothers, ma che fu un dramma durante la lavorazione e un fiasco al botteghino. Ad Avildsen fu proposto di dirigere La febbre del sabato sera, ma rifiutò per disaccordi con la produzione su alcune modifiche del copione. Nel 1984, invece, Avildsen aveva diretto un altro film destinato, forse a sorpresa, a sbancare ai botteghini: The Karate Kid, la storia di un giovane che decide di imparare le arti marziali per difendersi dai bulli e dell’amicizia con il suo mentore e maestro.

Uscito nell’estate del 1984 Karate Kid trascinò milioni di ragazzi al cinema e consegnò a Pat Morita, un caratterista conosciuto per i suoi ruoli tv, una nomination all’Oscar nomination come miglior attore non protagonista. “Appena i produttori si resero conto del successo al botteghino, chiesero un altro film – aveva raccontato Avildsen in un’intervista del 1986 – io ero molto nervoso. Non volevo fare un sequel perché era una storia molto difficile da proseguire”. Alla fine però di seguiti ne girò ben due: Karate Kid II nell’86 e Karate Kid – La sfida finale nel 1989. Quest’anno è stato presentato in alcuni festival americani il documentario John G. Avildsen: King of the Underdogs, diretto da Derek Wayne Johnson, con interviste a Sylvester Stallone, Ralph Macchio, Martin Scorsese, Jerry Weintraub, Burt Reynolds e altri sulla vita e la carriera del regista. “Non realizzo i miei film seguendo una formula rigorosa anche se molti di loro hanno un tema simile: che è il tema degli “underdogs”, degli outsider che prevalgono sui vincenti, per me quello è un buon dramma. Il contrario sarebbe troppo deprimente”.

Fonte: Repubblica

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