Il 63esimo Festival Puccini di Torre del Lago festeggia, sabato 15, il centenario della Rondine, e offre il podio d’onore alla 27enne lucchese Beatrice Venezi, nominata direttore principale ospite per il 2018, e con la responsabilità nel progetto Pacini Renaissance, dedicato all’altro grande operista di casa. Compositrice, diplomata in pianoforte e direzione d’orchestra, Venezi ha debuttato a Torre del Lago l’anno scorso guidando i giovani artisti dell’accademia di perfezionamento.
L’esordio al festival pucciniano cosa fa pensare a una musicista di Lucca, città natale del grande compositore?
“Per Puccini non posso che avere immensa riconoscenza, oltre che amore. Se non fosse stato per ‘lui’, probabilmente non avrei iniziato così presto la professione”.
Nel senso che da studente non immaginava di finire sul podio?
“Si, sì ci pensavo ma ancora in modo molto vago: avevo bisogno di una conferma sul campo”.
E Puccini, come c’entra?
“Durante una prova di Madama Butterfly, in un teatro tedesco dove lavoravo come maestro collaboratore, il direttore mi chiese se volevo dirigere al suo posto. Io non avevo mai tenuto in mano la bacchetta: ‘ce la puoi fare’ mi disse. E mi buttai: con una bacchetta prestata. Mi sentii subito a mio agio. E l’orchestra mi regalò la prima bacchetta mia”.
Ora il battesimo importante qui, all’ombra del maestro.
“In realtà è un ritorno: l’anno scorso ho diretto un titolo non-Puccini ma dal sapore pucciniano come Turandot di Busoni”.
Diciamo che anche Rondine è un po’ non-Puccini: è un’opera speciale, bellissima ma poco eseguita.
“L’occasione del centenario della prima esecuzione speriamo serva. Rondine mi piace proprio per le sue caratteristiche ‘diverse’. C’è un’invenzione melodica straordinaria ma anche uno stile di canto moderno ‘di conversazione’. Ci sono fox-trot e altri balli alla moda, il pop di allora. E molto valzer, come un’operetta vera”.
Una difficoltà in più.
“Sì, ma ho avuto la fortuna di lavorare molto in Germania, e di dirigerne molte. Conosco bene fascino e trappole valzeristiche”.
Venezi, Chauhan, Viotti: direttori d’orchestra under 30
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Lorenzo Viotti
L’opera è un genere per giovani?
“Certo, le storie sono pop. Trame, personaggi e sentimenti non appartengono al passato anche se il linguaggio dei libretti dichiara il secolo di nascita Don Giovanni e Bohéme raccontano vicende vere e sempre attuali”.
E la cosiddetta “musica classica”?
“La modernità della musica classica e dell’opera non può lasciare indifferente nessun generazione. È (stato) sbagliato il modo di comunicarla e di insegnarla nelle scuole. Così sono attecchiti i luoghi comuni che la vogliono vecchia, noiosa, distante”.
Come rovesciare il “messaggio”?
“Se si vuole parlare ai millennials, bisogna usare i loro strumenti di comunicazione: usare i social, apprenderne il linguaggio. Sono importanti le nuove forme di spettacolarizzazione, più coinvolgenti, tecnologicamente avvincenti”.
Quindi è favorevole alle regie che stravolgono le opere?
“Cambiare set, renderlo più moderno non vuol dire intervenire e snaturare la storia dell’opera. Ci sono alcuni titoli che hanno bisogno delle loro collocazione storica riconoscibile, altri invece si prestano a essere ‘riscritte’ scenicamente intercettando meglio il gusto spettacolare del pubblico di oggi”.
Tra i suoi incarichi attuali, dal 2014 c’è la quello di responsabile della sezione “young” della Nuova Orchestra Scarlatti di Napoli: ce lo spiega?
“Semplice. La Scarlatti ‘nuova’, che ha preso il nome della storica ex-orchestra Rai ma è nata con criteri e strutture del tutto autonome e innovative, in realtà è una comunità di orchestra: un unicum in Italia. Una sorta di laboratorio orchestrale aperto in cui agiscono quattro organici: junior, young, professional e amatorial. Quella di cui mi occupo, la Young, è formata da musicista tra i 18 e 28 anni”.
Dovesse immaginare la nuova vita musica italiana, partendo da questa esperienza, come la vedrebbe o vorrebbe?
“Indipendente. Credo che sia una delle prime ‘rivoluzioni’. Non ci si può più affidare ai finanziamenti pubblici così come non bastano più i modi di comunicare del passato. La managerialità moderna implica anche sapere ricrearli, adattarli alle situazioni, condizionare il repertorio. La tradizione classica va salvaguardata ma il repertorio va allargato. Ad esempio a me piace indagare la letteratura sinfonica italiana, e mi accorgo che non piace solo a me”.
Quanto conta mescolare i generi, il borderline?
“Può funzionare ma deve essere ben ideato e non può essere considerato l’unico modo per rinnovare. E il processo di viaggio tra le ‘musiche’ che va ricostruito: oggi capita spesso che vengano portati altri generi all’interno della classica, mai il contrario. Quindi la contaminazione rimane sempre a senso unico, incompleta, perché non si ammette che il musicista classico ascolti e ami altra musica (come accade a me). Che si diverte molto a proporla esecutivamente seppure in modo professionalizzato”.
Altri luoghi comuni, insomma
“Sono convinta. Non è il repertorio classico a essere fuori tempo ma l’immagine dell’interprete classico: il modo con cui viene visto dalla maggior parte del pubblico e dei media”.
A parte lei. Giovanissima, bella, bionda, che dirige in abito da sera rosso. Quanto l’ha aiutata essere una donna?
“Nessun vantaggio, se ci penso. Anzi. Le forme di pregiudizio ci sono, sono diverse da un tempo ma tenaci”.
Ma oggi le donne-direttore d’orchestra non sono più un’eccezione.
“D’accordo, le cose stanno cambiando, ma ce ne vuole ancora prima di non essere giudicata anzitutto per il sesso, poi per la professionalità”.
Vale in Italia, ancora. E in Germania?
“Ancora più chiusi, direi a differenze dei paesi anglosassoni dove le pari opportunità sono decisamente più applicate”.
Fonte: Repubblica.it
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