Facebook, che tipo di utente sei? Urlatore, selfie-maniaco, osservatore o integrato?

C’È quello che non ne salta una, commenta ovunque, risponde ai post degli amici e della zia. L’altro, invece, che sfrutta Facebook come lo “speakers’ corner” di Hyde Park: un modo per denunciare ma anche, semplicemente, per annunciare postando notizie, aggiornamenti, eventi. Il terzo identikit individuato da uno studio della Brigham Young University – emblematicamente intitolato “I love Fb” – è invece quello battezzato “selfies”: sono gli utenti che passano dalla piattaforma di Menlo Park esclusivamente per autopromuoversi. Partono dal presupposto dei primi, i “costruttori di relazioni”, ma più che le relazioni di per se stesse a interessarli davvero è l’attenzione sul proprio conto. Infine quelli che in italiano potremmo definire come “osservatori”: si sentono vincolati a stare sul social, perché in fondo come fai a sganciarti, ma fanno un passo indietro e di rado pubblicano cose personali.

Sono i quattro profili che escono da un’indagine firmata da Tom Robinson, docente di comunicazione all’ateneo dello Utah, pubblicata sull’International journal of virtual communities and social networking e che sono il frutto di una domanda di fondo. Forse la più banale possibile ma che nessuno aveva mai approfondito davvero: “Perché ci piace stare su Facebook?”. La creatura di Mark Zuckerberg ha appena varcato la soglia dei due miliardi di utenti attivi ogni mese e nel giorno medio circa 1,28 miliardi di persone si collegano almeno una volta alla propria bacheca attraverso i più diversi dispositivi. Secondo una stima recente l’utente medio ci passa almeno 35 minuti al giorno, sul sito blu, con variazioni molto forti fra i diversi mercati. “Perché la piattaforma ha conquistato il mondo? – si è domandato il principale autore della ricerca – perché la gente aspira così tanto a proiettare la propria vita sullo schermo?”.

Per rispondere a queste domande Robinson e i coautori Clark Callahan, Kristoffer Boyle, Erica Rivera e Janice K Cho hanno appunto sottoposto al campione una serie di 48 definizioni fra le quali le persone hanno dovuto scegliere quelle più appropriate a definire il loro rapporto con Facebook. La o le ragioni fondanti, insomma, per cui ci passano così tanto tempo. A volte decisamente troppo. I volontari hanno scelto le etichette e le hanno poi valutate assegnando un giudizio da una scala che va da “proprio come me” a “del tutto diverso da me”. Alla fine i ricercatori hanno reso coerenti questi dati intervistando ogni volontario per comprendere meglio quel lavoro di autoanalisi rispetto all’uso dei social. E la sorpresa è stata proprio l’emersione di un paio di profili mai spuntati fuori in simili ricerche passate: i cosiddetti “town crier” e gli “window shopper”, cioè appunto gli “urlatori” e gli “osservatori”.

Se infatti era già piuttosto chiaro l’uso della piattaforma dagli edonisti digitali, quelli che si dicono d’accordo con frasi tipo “Più notifiche ricevo più mi sento apprezzato”, così come dagli utenti molto bravi a usare la piattaforma come una specie di estensione della loro vita reale, del giro degli amici e della famiglia (quelli che si identificano in frasi come “Facebook mi aiuta a esprimere amore per la famiglia e viceversa”) quelli usciti con chiarezza dall’indagine sono appunto i profili più complessi da individuare. Perché la loro presenza sulla piattaforma è sfumata.

Se i “town crier” sono quelli che vivono una netta separazione fra esistenze reali e mondi virtuali e dunque si interessano più di diffondere notizie, informare, condividere eventi, gli “osservatori” “vogliono vedere cosa fanno gli altri – ha spiegato Callahan – l’equivalente sui social network dell’osservazione delle persone”. Si tratta di utenti che si trovano a loro agio in definizioni come “Posso liberamente guardare il profilo Facebook di qualcuno per cui ho una cotta e così scoprire interessi e informazioni”. “I social media sono parte integrante di ciò che siamo ora – ha spiegato Boyle – molte persone non pensano a quello che fanno ma se fossero in grado di riconoscere le loro abitudini potrebbero almeno esserne consapevoli”.

 

Fonte: Repubblica.it

 

 

 

 

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