Più automi, meno operai: ecco la fabbrica 4.0

Nelle aziende italiane che rimpiazzano i dipendenti con le macchine: “Ma ancora investiamo sul fattore umano”.

ADRO (Brescia) – “Certo, se ragionavo in un altro modo e non cambiavo questa macchina magari nell’immediato mantenevo il posto a due, tre operai. Poi, però, sarei andato fuori mercato e avrei dovuto licenziarne dieci”. Paolo Streparava cerca di semplificarla così l’Industria 4.0, mentre coccola con gli occhi il robot che perfora gli alberi porta bilanciere prodotti per i camion della Volvo. Tutto intorno c’è pochissimo rumore, pavimenti lindi come in una clinica e un operaio che si aggira tra i macchinari con passo felpato. Streparava – 40 anni, amministratore delegato dell’azienda che porta il suo nome e quello del padre, il presidente, e del nonno, il fondatore – snocciola cifre per dare consistenza al ragionamento: “Oggi abbiamo 360 dipendenti in Italia, lo stesso numero di dieci anni fa, ma è cambiata la composizione: prima erano 300 operai e 60 impiegati, ora gli operai sono poco più di 200 e il resto sono impiegati, soprattutto tecnici che controllano i processi produttivi. E da qui monitoriamo anche le linee che abbiamo in Brasile e in India. Non solo non c’è stata perdita di occupazione, ma è migliorata la qualità del lavoro”.

Nel capannone accanto è in allestimento la nuova linea di produzione, naturalmente robotizzata, che ogni anno sfornerà 900mila pompe a iniezione per la Volkswagen. Intanto, un altro macchinario incardinato a 650 tonnellate di calcestruzzo e molle antisismiche, simula le sollecitazioni di ogni tipo di terreno per testare la resistenza delle componenti dei camion: “Vale 2,5 milioni di euro, ce l’abbiamo solo noi e i clienti lo sanno bene…” dice con malcelato orgoglio Streparava. Anche lì gli operai sono poche comparse che si aggirano tra plance di comando, monitor e gabbie metalliche.

A raccontarla da questa fabbrica a metà strada tra Brescia e Bergamo, simile a altre migliaia di aziende che sono il tessuto produttivo del nostro Paese, quella di Industria 4.0 sembra davvero una rivoluzione felice. L’ennesima accelerazione tecnologica che innesca il circolo virtuoso di produttività, crescita delle aziende, occupazione, miglioramenti salariali, aumento dei consumi. In fondo nel mondo è andata così con le precedenti rivoluzioni industriali (a cominciare da quella inglese di fine Settecento) e andrà così, sostengono molti economisti, anche questa volta con gli sviluppi della robotizzazione e della cibernetica. Ma poi bisogna fare i conti con altri numeri e altre previsioni che prefigurano una storia molto meno virtuosa. Il Fondo monetario addebita a robot e informatica il forte ridimensionamento (14 punti percentuali dal Settanta a oggi) della quota di reddito nazionale che nei Paesi avanzati è andata ai lavoratori. Per i ricercatori di Bruegel, autorevole think-tank di Bruxelles, tra il 45 e il 60% della forza lavoro europea rischia nei prossimi decenni di essere sostituita da robot. Secondo un rapporto della McKinsey, in tutto il mondo sono 1,2 miliardi i posti di lavoro sostituibili con le tecnologie. E ancora, una ricerca del Massachusetts Institute of Technology e della Boston University afferma che in media un robot installato ogni mille operai distrugge 6,2 posti di lavoro e fa calare dello 0,7% il salario. “Le macchine, un tempo strumenti per incrementare la produttività dei lavoratori – scrive Martin Ford nel best seller Il futuro senza lavoro – si trasformano esse stesse in lavoratori, e la linea di demarcazione tra le possibilità di lavoro e quelle del capitale sta diventando più sfumata che mai”.

Davanti a queste riflessioni Paolo Streparava ti osserva come se fossi un marziano atterrato nella pianura bresciana. Ma in fondo cifre e ragionamenti a livello mondiale parlano anche di lui e della sua azienda: “Guardi che qui abbiamo fatto l’innovazione vera: sono almeno quindici anni che esistono fabbriche dove gli stabilimenti sono controllati a migliaia di chilometri di distanza. Altro che i bancomat, i conti online e i tagli al personale delle banche: noi siamo gente che al bar se la tira per il numero dei dipendenti. Continuiamo a investire nella risorsa umana, perché sul controllo di qualità ci sono uomini, non robot”.

All’Ucimu, l’associazione dei costruttori italiani di macchine utensili, dicono che Industria 4.0 è figlia del crollo degli investimenti per la recessione: “Il parco macchine dell’industria italiana ha l’età media più alta degli ultimi quaranta anni”, e si spiega anche così il +22% degli ordinativi in Italia di macchine utensili nel primo trimestre 2017. Come dire che è una rivoluzione obbligata. “Industria 4.0 mi sembra più che altro un titolo da dare alla nuova tornata di incentivi – dice Streparava – . Non vorrei che alla fine molti miei colleghi comprino solo qualche computer per avere i fondi senza innovare davvero”.

Sarà. Intanto Fausto Angeli, della Fiom di Brescia, tiene la guardia alta: “L’automazione può portare tagli degli organici o, bene che vada, un aumento dei carichi di lavoro”. In realtà nel sindacato il dibattito è apertissimo, con il leader dei metalmeccanici Cisl, Marco Bentivogli, controcorrente: “I robot sono tra noi da oltre trent’anni, non mi sembra il caso di rimpiangere nelle fabbriche le esalazioni delle saldature. In Italia settori come l’elettrodomestico sono quasi spariti per lo scarso investimento nelle tecnologie. Fermare il progresso è velleitario, c’è uno spazio di lavoro e di nuovo lavoro da andare a prendere ripensando integralmente l’idea di impresa e le sue finalità, gli orari, la sostenibilità intelligente”.

Ma è solo una delle tante risposte possibili. Come quelle che arrivano dai capannoni del Centro Studi Materiali, azienda un tempo nell’industria siderurgica pubblica e confluita poi nel gruppo privato Rina. Stampanti 3D per studiare le imperfezioni nelle turbine degli elicotteri; macchine che testano la tenuta del metallo di gasdotti o binari; un microscopio da 2 milioni di euro che scruta le polveri metalliche con una risoluzione che arriva ai filari atomici. A pochi chilometri da Roma, affacciata sulla tenuta presidenziale di Castelporziano, un’imprevedibile realtà dove ogni giorno si cerca di spostare più avanti la frontiera dell’innovazione. Un’incubatrice dell’Industria 4.0 che lavora per gruppi italiani ed esteri, da Arcelor Mittal all’Arvedi, da Fincantieri all’Eni, da Nippon Steel ad Ansaldo. “La siderurgia ha già scontato anni fa il prezzo della disoccupazione tecnologica – spiega Stefano Luperi, responsabile della linea di business – i nuovi robot non sostituiranno le squadre di operai. Adesso la sfida è sui materiali e sui processi di produzione: abbiamo venduto a un’azienda alimentare il sistema di controllo derivato da quello delle linee produttive della vergella, perché una barra d’acciaio non è poi così diversa da uno spaghetto”. A guardare i macchinari di Csm, il pensiero torna a un’altra profezia che Martin Ford ha scritto nel suo libro raccontando la stampante progettata dall’University of Southern California e in grado di costruire in sole 24 ore le mura di cemento di una casa: “Nel mondo 110 milioni di operai lavorano nel settore edile. Le stampanti 3D potrebbero un giorno dar luogo a case migliori e più economiche, ma questa tecnologia potrebbe anche eliminare moltissimi milioni di occupati”.

Catastrofismo allo stato puro, direbbe qualcuno. Magari evocando la battuta del premio Nobel Milton Friedman che, durante la visita al cantiere pubblico di un Paese asiatico dove c’erano tanti operai con il badile e pochi bulldozer, alle spiegazioni dei funzionari che parlavano di “progetto occupazionale” replicò chiedendo

ironicamente perché, allora, agli operai non venisse consegnato un cucchiaio invece del badile. Ma eravamo negli anni Sessanta, praticamente un’era glaciale fa, e nel frattempo nella “granitica” infallibilità degli economisti si è aperta più di una crepa.

Fonte:Repubblica

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