Daniele Vicari: “Il cinema italiano? È postmoderno, elitario e ama troppo il potere”

“Il cinema italiano? È postmoderno, elitario e ama troppo il potere”. L’arrivo in sala di Sole cuore amore, presentato all’ultima Festa di Roma e in sala giovedì, è l’occasione per fare con Daniele Vicari, regista di film come Velocità massima, La nave dolce, L’orizzonte degli eventi, Diaz, una riflessione su difetti e derive, ma anche su tendenze e futuro – del nostro cinema.

Vicari, lei è un cineasta presente sui social e coinvolto in molte campagne civili. Di recente quella per la liberazione di Gabriele Del Grande, il cineasta arrestato in Turchia e poi rilasciato.
“L’ho saputo subito, quando è arrivata la notizia dell’arresto, anche per via del legame diretto di Andrea Segre. Con gli amici di Gabriele abbiamo iniziato a parlarne sui social e quasi subito ci siamo sentiti con Valerio Mastandrea e Segre per fare qualcosa. Poi siamo stati fermi qualche giorno, c’era stato detto a livello istituzionale di tenere la cosa bassa, di non interferire troppo con le trattative in corso. Tutto questo infine è diventato una conferenza stampa che abbiamo fatto in Senato con Manconi, Mastandrea, Concita De Gregorio e Andrea Segre. C’è stata un’attenzione immediata dei social e dei media, un’attenzione specifica: non si sono fatti discorsi generici, si è parlato subito della libertà di movimento, di espressione, di stampa, che è poi l’argomento numero uno oggi nel mondo. In particolare da noi in Occidente però in Turchia in questo momento ci sono 150 giornalisti in carcere per cui la situazione è assolutamente urgente e complessa. Per noi, per il gruppo che si è mobilitato la libertà di stampa fa parte del nostro orizzonte di valori, la vicenda di Gabriele si è innestata nei confronti dell’interesse profondo che abbiamo verso questo tema. E infatti Gabriele giustamente pone la questione “io non sono un eroe, ci sono altri 150 giornalisti in prigione. Stiamo attenti perché parliamo di un mutamento epocale in cui non è più scontata la libertà di stampa. E questa questione si inserisce in quella più generale dei diritti nella nostra società, dei diritti declinati nei vari modi. E con Andrea Segre, Valerio Mastandrea e altri cineasti noi siamo sempre molto attenti, e i nostri film lo dimostrano. In viaggio con la sposa di Gabriele Del Grande è un film straordinario che mostra anche il lavoro sul campo. Sono nate nuove figure, Gabriele non è un reporter, un regista, un giornalista ma è tutte queste cose insieme. In questo momento siamo tutti spinti dalle urgenze geopolitiche ad essere così, sempre presenti. Tu mi dici “sei molto presente sui social” perché cerchiamo di utilizzare tutti gli strumenti che abbiamo a disposizione perché la questione dei diritti, è la questione più urgente, da quelli del lavoro a quelli di cittadinanza, la libertà di espressione e della persona, di movimento. Queste sono le questioni fondamentali”.

FotoDaniele Vicari: “Il cinema italiano? È postmoderno, elitario e ama troppo il potere”
Valerio Mastrandrea, Daniele Vicari, Andrea Segre, Concita De Gregorio, Luigi Manconi, Rachele Masci, Giovanni De Mauro durante la conferenza stampa in Senato
In tutto questo come sta cambiando la figura del cineasta?
“Poiché non possiamo più muoverci liberamente nel mondo e persino ormai in Europa ci sono stati che vorrebbero chiudere le frontiere, è chiaro che il mondo in cui noi ci troviamo a vivere è completamente diverso rispetto a quello di qualche anno fa. Il cinema, quando è strettamente legato a ciò che accade, alla realtà, non può non porsi questi problemi. C’è chi lavora a stretto contatto con questioni legate all’amministrazione, chi alla libertà di espressione, chi cerca di tenere insieme tutti questi elementi. Io personalmente, proprio per la mia storia di cineasta, ho iniziato come giornalista, di cinema ma non solo, ho l’urgenza di stare in queste questioni. Scrivo ogni tanto articoli. Non vedo differenze nella mia esistenza pubblica tra attività sui social e quella artistica cinematografica”.

I film scelti quest’anno per il Festival di Cannes rientrano nella tendenza del cinema del reale…
“Quando una quindicina di anni fa un gruppo di cineasti ha cominciato a fare documentari anche prioritariamente rispetto ai film di finzione sembravamo un gruppo di sfigati perché il cinema era una cosa e il doc un’altra. Invece noi abbiamo sempre detto: il cinema è cinema, il doc è una parte di cinema. E oggi non possiamo non fare documentari perché abbiamo un problema di comprensione della realtà che abbiamo intorno. Questo problema ha bisogno di strumenti di conoscenza del reale è il documentario. E infatti abbiamo iniziato a mettere in discussione il modo in cui definiamo i film, il cinema del reale. Questo è diventato un movimento e il cinema documentario in questo momento è un fenomeno straordinario. Noi produciamo tra i 500 e i 700 doc l’anno, è una delle produzioni più grandi del mondo. Alcuni sono discutibili o hanno difetti, ma la maggior parte ormai viene ospitato regolarmente nei festival di tutto il mondo e addirittura riescono ad arrivare in sala. Quando all’inizio del duemila io, Guido Chiesa e Davide Ferrario facevamo doc che andavano in sala ci dicevano “strano”. Ora è quasi la norma. Questo sta cambiando, rivoluzionando, dal di dentro la nostra cinematografia. L’influenza sullo stile è una conseguenza, perché poi ciascuno di noi concepisce il cinema in una maniera specifica, personale, per cui a volte il modo di girare nei film di finzione si avvicina al doc, altre volte è lo sguardo, il modo di ricercare l’analisi che si fa della società. Non c’è una grande differenza e non è che il cinema di finzione deve somigliare a un documentario, anzi. La cosa importante è che il processo conoscitivo, la scrittura, il modo di guardare il mondo non escluda, anzi vada a fondo, nei fenomeni a noi contemporanei e far in modo che questi fenomeni entrino nei film in maniera non surrettizia ma costitutiva. Diciamo che siamo in una fase in cui con grande fatica si sta riconsiderando una forma di racconto realistico- che non vuol dire naturalistico- ma che contempla una costruzione drammaturgica anche complessa e che non ha nulla da invidiare al postmoderno che fino ad adesso ha tenuto – e tiene ancora- il banco nel cinema mondiale”.

Perché il postmoderno tiene banco?
“Perché anche ideologicamente l’idea che non esiste la realtà è molto affascinante. E infatti la realtà è stata sostituita dal potere. C’è una rappresentazione del potere strabordante, che va oltre ogni limite e quindi c’è anche l’innamoramento per il potere, sia quando si raccontano storie di gangster – personaggi che hanno le pistole in mano. In questi film tu non vedi mai una persona che lavora, ad esempio. Sono tutti dediti a fare rapine, spararsi tra loro, comprarsi la macchina – sia quando si racconta il potere in senso più ampio: la politica, la religione”.

Vale molto per le serie tv.
“Hanno portato all’esasperazione questa tendenza. E siccome il cinema in questo momento ha una sudditanza nei confronti delle serie tv i film finiscono per somigliare alle serie. Sarebbe interessante avere una maggiore mescolanza ed ecco perché ritengo che questo fenomeno – uno sguardo forte sulla realtà contemporanea storico politica – sia fondamentale: perché guarda oltre il potere, va lontano dal potere. Parlo del cinema documentario, di un approccio alla narrazione cinematografica che non si pone il problema del potere ma delle conseguenza che il potere ha sulle vite quotidiane delle persone”.

‘Sole, cuore, amore’ mette al centro una donna e la sua quotidianità difficile.
“Premesso che ognuno può fare il cinema che vuole, credo che l’allontanamento dei cineasti dal racconto della vita delle persone non sia una cosa qualitativamente diversa dall’allontanamento della politica dalla vita quotidiana delle persone. È la stessa cosa. Noi dobbiamo saperlo tutti che il cinema appartiene al potere, è funzionale al potere, ama il potere e ne viene amato. Il cineasta se non riesce a sottrarsi a questa fascinazione poi diventa il potere. In maniera straordinaria, anche entusiastica, perché il potere poi ti sostiene, ti aiuta, ti ama. Anche quando tu lo critichi; come diceva Andreotti “parlate pure male di me ma parlatene”. Da un po’ di tempo per fortuna questa attitudine viene messa in discussione soprattutto da i nuovi cineasti, che s’affaccino al cinema negli ultimi anni. Ormai sono un certo numero”.

Nel cinema documentario ci sono molte donne.
“Sì, nel cinema di finzione sono pochissime; essendo un luogo di potere, la battaglia è dura da vincere. È vero che non ci sono i soldi né il potere del cinema di finzione. E proprio per quello c’è più pluralità di sguardi, un allargamento della platea di narratori e narratrici”.

Com’è nato ‘Sole, Cuore, amore’?
“Ho scritto questo film nella più totale libertà, anche da un’idea produttiva. Ho scritto questa storia d’istinto, in 48 ore, direttamente la sceneggiatura. Sulla base di un lavoro drammaturgico fatto con gli allievi attori della scuola Gian Maria Volonté. Avevamo affrontato il tema del licenziamento in fabbrica. Volevamo lavorare anche sulla condizione precaria dell’attore, che è sempre “scelto”. Finito questo lavoro ho capito che nelle facce delle ragazze avevo visto la faccia delle donne che conosco; mia madre, mia sorella, mia cugina. Avevo l’urgenza di mettere su carta questa sensazione e ho iniziato a scrivere. In quei due giorni è arrivata alle cronache la vicenda di Paola Clemente, la bracciante pugliese che è morta di fatica, tre figli, cento chilometri al giorno di viaggio. Questa vicenda fece riemergere anche quella di Isabella Viola, che nel 2012 è stata trovata morta in una metropolitana a Roma. Tutte queste suggestioni sono diventate la sceneggiatura. In cui c’è tutto questo e molto di più: il metodo che mi sono dato è questo: parla solo di ciò che conosci e hai visto. Nel film ci sono solo scene legate a situazioni che ho conosciuto direttamente. E questa caratteristica si è trasferita nel film”.

Le due donne protagoniste, che sono la faccia della stessa medaglia.
“Sì. Eli la barista è un personaggio neorealista, Vale la ballerina un personaggio postmoderno. Il cinema in questo momento è in tutti e due i luoghi. C’è il neorealismo, tutta quella parte di società italiana che non riesce a mantenere la propria famiglia e a soddisfare i bisogni attraverso il proprio lavoro, perché il lavoro è sottopagato, non contempla i diritti, è difficilmente raggiungibile. E poi c’è tutta una parte di giovani, sotto i quarant’anni, che fa una vita assolutamente sganciata dal sistema produttivo classico. Soprattutto a Roma ma in tutte le società del terziario sono persone che fanno un lavoro immateriale, artistico, nell’informazione, nell’informatica, nella comunicazione in generale. Milioni di persone che vivono senza contratto, con stipendi da fame, e che si sono adeguati alla situazione divenendo single, cioè poiché non mi posso permettere una famiglia vivo da solo, da sola, e navigo dentro questo mare senza caricarmi del peso, della responsabilità di cui invece nel neorealismo – vedi Eli – era normale caricarsi. Vale è una donna che ha accettato una sfida durissima che ha grandi costi su se stessa: lei deve essere pronta a tutto, anche a mettere in discussione la propria identità sessuale. Ma in questo combattimento lei ha più possibilità di farcela, perché in qualche modo questa scelta solitaria è adeguata alla fase storica in cui vive. Perché lei trasforma la sua fatica in espressione artistica, il suo tempo libero lo dedica all’espressione artistica, a se stessa, mentre Eli dedica tutta se stessa alla famiglia. E quindi tra di loro c’è conflitto ma anche un percorso comune. Nessuna delle due riesce ad essere fino in fondo ciò che vuole essere, questo è il tema del film”.

Lei ha fatto l’Istituto tecnico, poi ha studiato cinema.
“Io ho studiato ad Avezzano, in provincia dell’Aquila, istituto tecnico industriale. Quando avevo sedici anni, vivevo a Colle Giove, iniziammo una battaglia per un parco naturale: quello è stato il momento in cui ho iniziato a fare politica. Perché negli anni Ottanta, che sono sottovalutati, il movimento ecologista ha cambiato profondamente la politica. I movimenti politici degli anni Sessanta e Settanta erano sconfitti, l’ecologismo era una forma di mobilitazione forte, anche per le questioni di Comiso, le questioni ambientali in generale. Questi movimenti che sono riusciti a far nascere molti parchi naturali. Noi siamo riusciti a far istituire il Parco Naturale, la riserva di Monte Cervia e Navenna. Una cosa di cui sono fiero. Questo è stato l’inizio della mia attività politica. Poi per studiare informatica mi sono trasferito a Roma. E fu uno choc, avevo solo sedici anni, i miei genitori ne furono sorpresi. Quando mi sono diplomato, con un buon voto, sono stato chiamato da alcune fabbriche. Quando mi venni a iscrivere all’università a Roma – nel frattempo lavoravo durante l’estate come muratore in cantiere con mio padre – mi iscrissi assurdamente a Lettere ed è lì che ho conosciuto il cinema, seguendo i corsi di Guido Aristarco”.

Lei è stato uno dei fondatori della scuola di cinema intitolata a Volonté.
“Io, Valerio Mastandrea, Antonio Medici, Andrea Porporati ci siamo fatti questo discorso: qual è il ritratto del cineasta medio italiano: maschio, adulto, bianco, ricco. È inutile tentare di cambiare il cinema solo attraverso i film, dobbiamo far sì che al cinema arrivino anche persone, come siamo noi che abbiamo fatto una grande fatica perché non apparteniamo a una certa categoria sociale. Quindi la scuola dev’essere gratuita e libera da condizionamenti. La scuola Volonté nasce da questo proposito”.

Il potere oggi in Italia.
“Oggi lo possiamo dividere schematicamente in due categorie. Una parte piccola della società italiana che lo esercita, e una parte enorme che lo subisce. Da una parte e dall’altra ci sono pochissime persone che non lo amano. La vera chiave di volta per il cambiamento per me è smettere di amarlo, il potere. Se cominciamo a smettere di desiderarlo iniziamo a cambiarlo. Inutile pensare di cambiare il potere se poi vuoi semplicemente andare a sostituire quelli che comandano con atteggiamenti e ideologie che sono uguali o peggiori a quelli che stanno comandando in questo momento”.

A chi si riferisce?
“Mi riferisco anche a chi fa cinema. Perché è inutile continuare a dire che attacchiamo la classe politica, la classe dirigente italiana, magari nei nostri film se poi noi non ci mettiamo mai in discussione. Non mettersi in discussione è un grosso problema. Non ci sono categorie che possono tirarsi fuori da ciò che è stato costruito fino ad adesso. E quando dico tirarsi fuori mi riferisco al fatto che anche noi cineasti dobbiamo scendere dal piedistallo e andare a guardare in faccia le persone e il perché molte, moltissime persone sempre di più non riescono a vivere, a trovare soddisfazione, sono arrabbiate fino al punto di arrivare all’autolesionismo. Per esempio capire perché le persone non si ribellano, nonostante tutto questo, è una cosa molto difficile”.

Il ruolo dei social media.
“Da una parte hanno dato possibilità a tutti quelli che possono accedervi di esprimere il proprio punto di vista, ma questo ha fatto venir fuori un grande problema, che è la nostra formazione. Se il cittadino non ha una formazione critica poi sui social non trova altro che uno sfogo istintivo più o meno violento, esasperato, comunque non lucido. Inutile dire che vanno aboliti i social. Con i social sono purtroppo emerse delle tendenze già presenti della società, tendenze culturali non democratiche. E i social ci costringono a guardarle in faccia, a trovare gli strumenti per comprenderle. Dobbiamo capire perché siamo arrivati a non desiderare più la democrazia. Non è che ce la possiamo prendere con Facebook e Twitter, dobbiamo essere consapevoli del fatto che sono aziende che fanno i propri interessi. Noi utenti social dobbiamo sapere che con ogni clic facciamo arricchire qualcuno. E siamo disposti a concedere troppo facilmente a Facebook quello che non concederemmo al nostro vicino di casa: questo crea una grande distanza tra l’esperienza di vita che noi facciamo con quella legata alla comunicazione. E stiamo diventando schizofrenici. Ma non è colpa dei social. È il nostro modo di concepire il rapporto con gli altri che è un problema ed è da qui che dobbiamo ripartire”.

Pochi film raccontano gli operai oggi. E Cannes consegna la Palma a Ken Loach
“Penso che sia diventato un fenomeno eccessivamente elitario. Non perché un film è più o meno difficile, è elitario il modo in cui è concepito. È elitaria la costruzione drammaturgica che passa attraverso il cinema. La visione del mondo è elitaria. Ed è elitario l’accesso al cinema, sempre di più. Perché il cinema è diventato una piccola enclave nel sistema dei media che è immensa. Se i cineasti non si sottraggono al loro elitismo, succede che io che sono un borghesotto in un quartiere ricco di Roma mi identifico più in un personaggio violento di periferia che ottiene tutto mediante l’uso della pistola, che ha come punto di vista sul mondo quello della sopraffazione, la caduta dei freni inibitori perché può avere tutte le donne che vuole, non lavora, non ha una quotidianità lavorativa, non deve affrontare i problemi della vita perché ha una pistola, perché la droga gli permette di fuggire. Poi magari muore. Ecco, io, narratore borghese, mi identifico più in lui che in uno che la mattina si alza alle sei si fa un culo così e ritendo noioso raccontare la storia di uno così. È questo il problema, ed è un classico problema di punto di vista di classe. Un problema antico, ma poiché il cinema è sempre più elitario l’altro punto di vista è espunto dal cinema. Non c’è. C’è una totale insussistenza del racconto della vita della gran parte delle persone. È chiaro che in questo gioco al massacro poi il pubblico si adegua e finisce per amare questi personaggi che non fanno nulla nella vita e ti spingono a desiderare di non fare nulla nella vita, perché la vita è faticosa. C’è anche una responsabilità da parte nostra nel racconto del cosiddetto reale”.

Da ex critico, quali sono i film recenti che le sono piaciuti?
“Mi è piaciuto molto il film di Gianni Amelio, La tenerezza. Sono felice per Gianni, che considero un mio maestro, in questo film credo che abbia ritrovato la gioia di fare cinema. Mi sono piaciuti Elle di Verhoeven, I, Daniel Blake di Ken Loach, Vi presento Toni Erdmann di Maren Ade. E poi voglio ricordare Io sto con la sposa, di Gabriele Del Grande. Quelli che ho rifiutato? Non so, anche i peggiori me li vedo fino in fondo… Logan, ad esempio, è un film che non ho capito. Per me è davvero scadente. Non mi sono piaciuti La La Land e Assassin’s creed. Riassumendo: i cinque che mi piacciono sono film anche imperfetti ma pieni di vita e di desiderio di esplorare il mondo, i tre che non mi piacciono sono i prototipi della totale derealizzazione dell’esistenza umana, a partire dai sentimenti, passando per la sofferenza fino addirittura alla morte. Meglio i videogiochi, almeno sono interattivi”.

 

Fonte: Repubblica.it

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