Non c’è partita. Il Pd è solo di Renzi

Voltarsi indietro per andare avanti. In diversi post, lo abbiamo scritto, tra i primi, non oggi, ma proprio durante le dispute più accese, dentro il Pd, con la minoranza di Bersani. Antropologicamente il Partito democratico era cambiato. Ed era completamente schierato con Renzi. I dati odierni dei circoli Pd e la schiacciante maggioranza riservata all’ex presidente del Consiglio sono la conferma.

Per questo, ai tempi, l’agitazione perenne della minoranza delle minoranze era incomprensibile: rappresentavano solo loro stessi e pochi altri, e la loro presenza dentro il partito era solo motivo di confusione. Zero valori di testimonianza con l’obiettivo di salvare la ditta. D’Alema è stato il primo a comprenderlo: la sua campagna contro il referendum costituzionale voluto da Renzi l’ha svolta tra coloro che ormai non votavano più Pd da tempo, in quell’arcipelago vario, privo di padri e di partito.

Anche la minoranza delle minoranze capeggiata da Bersani&Speranza aveva capito che aria tirava: pensavano di tirare a campare di rendita, poi hanno tirato male, e troppo, la corda e quindi rimanere dentro il Pd era diventato esteticamente impossibile. I loro tratti distintivi sono maturati nel livore e nel rancore verso Renzi. Non c’era una materia programmatica predominante sulla quale trovare una mediazione per cambiare il tenore della musica. Idee e programmi erano ultronei. Il livello dello scontro verbale aveva compromesso ogni possibilità di convivenza futura.

Oggi i fatti hanno dato mille ragioni a Renzi. E sarebbe bene che quella stampa che ha sopravalutato la minoranza delle minoranze dentro il Pd, dandogli una visibilità e un peso ben oltre misura, riconoscesse che, allora, era un mero esercizio speculare, giusto per alimentare la polemica. È così vero che oggi Bersani &Co. usciti dal Pd non trovano più spazi rilevanti né sui giornali e neppure nei talk. Sono nella corsia Civati&Fassina&D’Attorre: un anonimato temperato. Che sarà tombale dopo l’esito elettorale del maggio 2018.

Quindi tutto bene madama la marchesa? Renzi vai avanti così che il mondo è tuo?

Lasciamo stare i dati degli iscritti partecipanti ai congressi dei circoli. Decide chi va. Sulle assenze e le percentuali eventualmente basse e calanti si rischia di fare una pedagogia d’accatto. I partiti, tutti, sono esangui. Inutile fare comparazioni. E vale per chi sale e per chi scende nei sondaggi elettorali.

Però il tentativo di Renzi va in controtendenza con le sue opinioni della prima ora rispetto al partito, al suo valore, l’organizzazione, l’utilità. L’ex premier ha compreso che vale la pena rianimare una struttura, un corpo di persone che può essere una macchina elettorale, seppur scalcagnata ma pregevole per l’uso che se ne deve fare, soprattutto quando il “basta la parola”, il brand ‘Renzi’, non fa più valore aggiunto. E in tutte le leadership succede. Dopo anni di governo e la sconfitta sonora del referendum quel basta la parola non è più la ricetta magica che raccoglie consensi.

Allora si va sul territorio, si lancia una mozione d’affetto al partito, ai dirigenti, ai militanti: una mossa che però non deve essere speculare, valere come la coperta di Linus quando c’è difficoltà, ma al contrario deve rappresentare, convinto, un lavoro di lunga lena. E su questo si poggia il patto elettorale che Renzi ha stretto dentro il partito con alcuni dirigenti forti, di peso, per esempio in Emilia Romagna come in Lombardia.

Le vittorie di Renzi anche in regioni come la Liguria e in Puglia dove c’è la concorrenza dei candidati alla segreteria, Orlando ed Emiliano, rappresenta una golden share notevole. Come a Roma con Zingaretti presidente di regione, schierato con Orlando: è cambiato anche il peso, sempre più relativo, di questi presidenti di regione che non sono più in grado di incidere sulla scelta delle leadership future del partito.

Vuol dire che il patto è generazionale che, sul territorio, sono cambiati i dirigenti, i riferimenti tradizionali del vecchio Pd e Pci. Scomparsi. Sono da altre parti. Questo sarà un lavoro più lungo al Sud, in zone come la Campania, dove si dovrà archiviare anche De Luca, e in Sicilia, dove Crocetta non si sa più chi e cosa rappresenti e la presenza del Pd è troppo speculare al potere.

Il Pd di Renzi, dopo il 4 dicembre, è un partito che ridisegna i rapporti con la minoranza. Emiliano sarà il prossimo a uscire dal Pd, anche lui ormai non ha alcun legame (di linguaggio e di strategia) con il nuovo percorso. Orlando farà minoranza. È auspicabile che non prenda la piega di Bersani&Co. Perché si riprenderebbe la vecchia musica di un disco rotto. Possibilità di ricongiungersi con quelli usciti è sottozero. Nemmeno possibili alleanze elettorali sono all’orizzonte.

Con questa nuova mappa politica, di un partito che c’è ma che va rimpolpato, strutturato meglio, spostato su di esso poteri, anche per gli iscritti, rispetto la linea politica e le cose da fare sul territorio (ai sindaci Pd è stato trasferito troppo potere ed eccessiva rappresentanza del partito), Renzi va verso le primarie.

Di popolo, sopra o sotto i due milioni, successo o insuccesso? La storia delle primarie andrà riscritta pure questa. Il suo valore si è molto ridimensionato. Come è giusto che sia. Primarie sempre e comunque per scegliere i dirigenti è una idiozia. Non è vero che salta fuori il miglior candidato e soprattutto quello vincente. Il caso Francia e il caos dentro i socialisti ce lo spiega bene.

Ma anche nel centrodestra non se la passano meglio. Va finire che vanno al ballottaggio due persone che le primarie non sanno cosa sono e soprattutto due persone al di fuori del riferimento tradizionale dei partiti, socialisti e gollisti. Macron è un signore che non ha fatto mai partito, non ha fatto nemmeno il rappresentante di circoscrizione. Ha fatto il ministro come indipendente in un governo socialista. Finita lì.

Insomma qualcosa sta cambiando e forse ha ragione Berlusconi: o le primarie si fanno per legge (da inserire con la nuova riforma elettorale (!?) o è meglio lasciar perdere e trovare, se ve ne sono le ragioni, modalità convincenti sul suo utilizzo. Non si può, per esempio, vivere con il sospetto che il risultato sia falsato, in una sezione piuttosto che un’altra, perché hanno partecipato “agenti” esterni di peso che ne influenzano, volutamente, l’esito o anche elevano solo il sospetto.

Renzi vincerà le primarie. Non è un problema la partecipazione. Non ci sono chiari di luna per partecipazioni oceaniche. Non ce n’è neppure il motivo, a guardar bene. Si sa che Renzi è il leader naturale. Per questo le primarie rappresentano un di più. In questo momento però marcano bene i rapporti di forza e sarà interessante capire dopo le primarie dove l’ex premier andrà a sbattere con in saccoccia due risultati rilevanti.

Se dovrà star ancora fermo fino a maggio 2018 – data alla quale Mattarella ha pensato per le prossime consultazioni -, per un ipercinetico come Renzi, credo sarà impossibile. Prima, potrà essere dopo settembre 2017. È vero che Renzi è in un qualche modo in un cul de sac. Tra i fuochi della legge elettorale incompiuta e Mattarella che rimane fermo e aspetta.

Il dato inconfutabile è che sarebbe meglio andare a votare e registrare come stanno le cose in questo momento. E poi procedere a quello che c’è da fare. Sia un governo di coalizione. O altro. Questo immobilismo non giova. Nemmeno a un governo che ormai sta girando su sé stesso malgrado le buone intenzioni. Si salva solo Minniti che sta facendo un lavoro che andava fatto durante il governo Renzi.

Dal 1 maggio l’ex premier deve dare le carte e decidersi. Uscire dall’angolo. O manda un stai sereno a Gentiloni, causa impraticabilità di manovra europea, o inizia a costruire una tela silenziosa che alimenta, già sono iniziati i richiami (perché lentamente vengono a galla e quindi riconosciuti i tanti provvedimenti del governo Renzi), quella necessità di avere un leader riconosciuto e abile che riesca dare uno scatto di reni, anche con un patto con Berlusconi, per i prossimi anni. Il caso tedesco insegna.

 

Fonte: www.huffingtonpost.it

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